C’è una città visibile e una nascosta, da secoli addormentata sotto i nostri piedi ignari. Possiamo fare supposizioni, provare ad immaginarla, questa città sepolta. Poi qualche volta sei costretto a scavare, ed essa si rivela raccontandoci qualcosa di sè.
foto Polo Museale Fiorentino
Caduto l’Impero Romano d’Occidente sotto i colpi dei barbari nel 476, Firenze era rimasta abbandonata, terra di nessuno contesa tra gli stranieri venuti dal nord, che poco avevano in comune con la stirpe romana. Le mura di mattoni che circondavano la città avevano resistito alle lotte, ma la vita al suo interno non era più gloriosa come un tempo. I nuovi popoli avevano portato con sè non solo un nuovo modo di interpretare il mondo, ma anche malattie qui sconosciute, in un tempo in cui perfino l’infuenza poteva essere letale.
Siamo appena fuori dalla cerchia muraria, in quella striscia obliqua di terra che separava la città dal suo fiume, strategica finestra sul mondo che più volentieri si muoveva sull’acqua che sulla terraferma. Ma l’Arno era anche portatore di distruzione, per questo i romani si tennero sempre a distanza di sicurezza, lasciando quella striscia di terra inedificata, non vissuta, usata solo come discarica, in attesa che le inondazioni si portassero via ciò che non serviva più.
In quel limbo, che oggi si trova nell’area di Levante degli Uffizi, durante i lavori di ampiamento degli spazi museali è stata individuata una necropoli risalente probabilmente al V o VI secolo.
Non è un cimitero qualunque però: non c’è niente di sacro, nessun gesto di attenzione. I sessanta corpi che sono riemersi dal terreno sono stati sepolti in tutta fretta, avvolti in semplici lenzuoli, calati giù nelle fosse con delle corde e abbandonati lì insieme ad altri simili con cui condividere la sorte. Non c’è stato tempo per la pietas, per i riti, per scavare buche più ampie in cui gli amabili resti non si confondessero con quelli di altri tre, cinque, dieci corpi. Sono stati sdraiati di taglio per occupare meno spazio e posti in modo che la testa di uno corrispondesse ai piedi dell’altro. I bambini sono stati incastrati fra gli uni e gli altri, affinché ogni buco fosse tappato. E’ la fotografia esatta e spietata di una tragedia che si è consumata millecinquecento anni fa. Una pestilenza, un’epidemia. Non ci sono segni di morte violenta che facciano ipotizzare un massacro. E nemmeno le carestie sono così rapide a sterminare la popolazione tanto da doverle seppellire in fosse comuni così grandi.
Il ritrovamento di questa necropoli dà alla scienza l’opportunità di capire molte cose in più sui nostri concittadini. Nel corso degli anni sono stati ritrovati altri scheletri di età tardo romana, ma mai così tanti, tutti coevi, da permeterci di indagare su cosa mangiavano, in che modo il lavoro incideva sul loro corpo, quale malattia li fece soccombere.
E’ la fotografia spietata di una morte, che però ci permette di vedere quale era la vita che l’ha preceduta.
N.d.r: L’articolo è arricchito dalle foto di Ferruccio Bigi, che era proprio stufo di leggere i miei ringraziamenti agli amici fotografi. Questa volta ho giocato con lui a fare la reporter. E, devo dire, si è comportato bene. Grazie.