Questo blog sta sfuggendo dal mio controllo. Avevo deciso di introdurre una novità esponendomi con le foto e già una di queste mi ha fatto lo scherzo di costruirsi un mondo indipendente intorno. L’ho riguardata ed è arrivato un racconto. Giuro che non l’ho chiamato io. Non è un esercizio di stile o un modo per stupire i miei benevoli lettori. Anche perché da sempre sono profondamente convinta che le storie non appartengano a chi le scrive, ma galleggino nell’aria, finché, quando lo ritengono opportuno, decidono di prendere corpo.
Questa ha scelto me. Sbatterle la porta in faccia mi sembrava un atto di immotivata scortesia.
Cellofan
Ore 7.30, mercoledì. Il cielo stamani ha lo stesso colore della polvere che senza chiedermi il permesso continua a posarsi sui miei mobili. Credo che faccia freddo, ma non ne sono sicura, perché le migliaia di corpi che affollano la metropolitana riescono sempre ad attutirlo un po’. Lo sento solo sulla punta del naso: quella devo lasciarla fuori dalle mie protezioni, per poter respirare. Col braccio stringo la borsa a tracolla lungo i fianchi, affondo le mani nelle tasche ruvide e comincio a camminare lungo la striscia verticale che dall’ingresso mi porta al treno. Tutto è scandito sulle strisce tracciate sul pavimento, qui a Pechino. Appena entri in meropolitana hai solo qualche millesimo di secondo per decidere quale sarà la corsia che il tuo corpo dovrà occupare durante il tragitto. Non sono possibili ripensamenti, non puoi nemmeno mostrare incertezza. Romperesti il ritmo, perderesti tempo, entreresti nello spazio vitale di qualcun altro, e questa è una mancanza di rispetto intollerabile.
Scegli la tua striscia del giorno, come da un menù sceglieresti il piatto che più ti aggrada, e cominci a camminare, parallelo ad altre decine di corpi come nel flusso inesorabile di un fiume. A volte mi piace che sia così. Almeno non devo pensare a mettere un piede dopo l’altro: è come se gli altri lo facessero per te. Devo solo ricordarmi di respirare, tutto qui. Qualche volta sei quasi sollevato in mezzo ai corpi che ti si stringono accanto, allora è un po’ come volare.
Il treno non è ancora arrivato. Ci fermiamo, così ho tempo di passare in rassegna il mio corpo, e scopro che: l’alluce sinistro duole dentro la scarpa (domani non ci ricasco, mi metto le ballerine); ho il ventre gonfio (mi devono venire le mestruazioni); il mio stomaco è massaggiato dallo zaino del ragazzo davanti a me (il tè al suo interno non sa da che parte andare); la punta del naso è umida. Punto. Il resto: neutro, come il cielo di stamani.
7.39, arriva il treno. Le porte si aprono e la folla che ne esce crea uno spostamento elastico in tutti noi che siamo in fila, una tensione indefinibile, un momento di vuoto simile a quando ti siedi in riva al mare con l’acqua fino alla vita e l’onda appena infranta ti risucchia, confondendosi con quella nuova che già vuole gettarti dalla parte opposta.
Tocca a noi entrare adesso. Non dovrò decidere dove mettermi, spero solo di essere vicina all’uscita. Forse.
Eccoci, tutti ordinati, verticali, a garantire lo sfruttamento massimo della capienza e dunque dell’efficienza del mezzo. Tutti pronti a svolgere le proprie mansioni quotidiane, avvolti, incellofanati quasi, dai vetri del treno, come tante bottiglie vuote ancora imballate in attesa di essere riempite.
N.d.r.: Il racconto lo dedico ad Alessandro M., lui capirà il perché. La foto la dedico a Massimo D., lui forse non capirà il perché, dal momento che l’avrà già dimenticato. Ma non importa.